Principi di Economia Solidale




Principi di Economia Solidale è un testo collettaneo, che raccoglie gli atti del Convegno Nazionale che la Società Filosofica Italiana ha tenuto lo scorso anno a Foggia sul tema dell’Economia Solidale. Nella raccolta, curata da Domenico Di Iasio per i tipi Pensa Multimedia di Lecce, e la collana Intersezioni, diretta da Mario Signore, si possono leggere gli interventi e le comunicazioni dei numerosi docenti e studiosi che hanno partecipato alla tre giorni culturale, ospitata nell’Aula Magna della Facoltà di Economia e Commercio dell’ateneo foggiano, per gentile concessione dell’allora Rettore Giuliano Volpe.

Discutere di Economia Solidale è sicuramente impegnativo, in un momento come quello che noi tutti stiamo vivendo, da quando si è aperta la fase recessiva, che ha visto il suo peggior momento tra il 2007 e il 2008, ma che continua a far sentire i suoi effetti ancora oggi con molta gravità, dal momento che, come si dice, non si produce più, e si è arrestata la crescita economica italiana.

La diagnosi è generalmente sempre la stessa, ed attribuisce la responsabilità, un po’ come accadde per la crisi del ’29, al capitalismo selvaggio e senza regole che, producendo all’infinito, avrebbe bisogno di un mercato infinitamente consumistico che, evidentemente, non ce la fa a riassorbire la mole di offerte immesse sul mercato, generando una sovrapproduzione, destinata a rimanere invenduta. I salari e gli stipendi, difatti, non progrediscono nella stessa misura del costo della vita, e sono erosi dall’inflazione che fa perdere loro gran parte del potere d’acquisto.

Sarebbe necessario, sostengono Bruno Amoroso e Domenico Di Iasio, tornare a ripensare uno stato che sostenga la domanda, anche attraverso la cosiddetta impresa sociale, che tiene le radici nel territorio, impedendo i rischi della delocalizzazione, per valorizzare i prodotti locali e il lavoro. Per far questo è necessario ricostruire il Welfare State, lo stato sociale, che rassicuri il cittadino consumatore.

Francesco Fistetti riscopre, a questo proposito, la prospettiva del comunitarismo nella filosofia di Karl Polany. Comunitarismo di cui aveva già parlato Aristotele in tempi non sospetti, in alcune sue opere, e nella Politica, distinguendo l’economia, come arte di far quadrare il bilancio della famiglia, dalla crematistica, che è invece l’accumulo vero e proprio di ricchezza, di un capitalismo in forme ataviche che, evidentemente, già esisteva all’epoca dell’antichità classica del IV secolo A.C.

Con la prospettiva comunitaria va presa in considerazione la bioeconomia, di cui parla Maria Laura Giacobello nella sua relazione su Georgescu-Roegen, sostenendo che ogni intervendo umano sulla natura non fa altro che aumentare l’entropia, il disordine interno, del sistema stesso.

Si dimostra necessario, pertanto, ritornare a forme di economia più vicine alla natura, e di essa rispettose, che non vadano ad incidere pesantemente sull’ordine interno del sistema. Cosa di cui la scienza moderna non ha tenuto in alcun conto, ci ricorda Giuseppe Giordano, se pensiamo al paradigma meccanicistico causalistico di Galilei e di Newton. Bisogna abbandonare il vecchio modello scientifico e abbracciare il paradigma della complessità, della ricettività, dell’indeterminazione, che ci fanno comprendere quanto l’andamento dei fatti biologici non sia sempre strettamente prevedibile e predicibile, facendo piuttosto propendere gli scienziati per un quid di aleatorio. Tale imponderabilità deve necessariamente essere tenuta nel debito conto da chi si occupa di scienza e di tecnologia. A maggior ragione, e proprio perché l’elemento incerto della libertà va a scontrarsi con la certezza delle previsioni economiche, l’economia è scienza che deve tener conto del rischio e dell’imprevedibilità del fattore umano. Giordano richiama così il valore della scienza economica, che deve essere ritenuta a buon diritto scienza umana, in quanto niente affatto indipendente dall’uomo, che la pratica e la agisce. E come tutte le scienze deve essa servire all’uomo, e non asservire l’uomo.

E proprio perché l’economia è scienza umana, sostiene Mario Signore, essa deve tornare a riappropriarsi di valori quali quelli della solidarietà e della fratellanza, anche nell’attuale fase della globalizzazione, per accompagnarsi ad un uso del diritto che possa fondare un’autentica giustizia, attraverso l’equità, evitando di attuare la prospettiva catastrofica del “fiat iustitia pereat mundus”.

Ma se l’economia è scienza umana, come si fa ad umanizzare l’economia?

Nel De Re Aulica Agostino Nifo, dice Ennio De Bellis, recupera il genuino insegnamento aristotelico degli Economica e dell’Etica Nicomachea, consigliando al principe parsimonia, frugalità e giusto mezzo.

L’umanizzazione dell’economia passa, però, anche attraverso alcune possibili soluzioni all’attuale crisi. Una di queste viene suggerita da Serge Latouche, ed è la prospettiva della decrescita felice che ho preso in considerazione nella mia comunicazione. Prospettiva che, per ammissione dello stesso economista francese, potrebbe diventare anche un vero e proprio programma politico ed elettorale. Certo è, che bisogna iniziare a fare i conti con alcune delle possibilità che potrebbero prospettarsi nel caso in cui le risorse limitate del pianeta dovessero finire, lasciandoci tutti nell’improvvisa indigenza energetica.

Anche Filippo Reganati sottolinea, nel suo intervento, come il rapporto della Commissione Attali riconosca il valore “umano” dell’economia. Scienza che viene intesa nella sua stretta interdipendenza con la politica e la cultura di ogni popolo. Investire nella formazione è, perciò, il primo modo per far ripartire la crescita che è, prima di tutto, un fattore culturale, e solo secondariamente un fatto monetizzabile e strettamente quantificabile.

Cesare Imbriani relaziona sulla differenza tra Croce ed Einaudi, che sostengono rispettivamente le ragioni del liberalismo, il primo, e del liberismo, il secondo. Mentre in Einaudi c’è la convinzione che il liberismo sia una diretta conseguenza della democrazia e dell’esercizio della libertà in senso lato, Croce esprime qualche perplessità in merito. Imbriani propende, infine, per una finanza etica, che si svincoli dai lacci del liberismo selvaggio e senza regole, prediligendo l’ipotesi del filosofo Croce a quella dell’economista Einaudi.

In campo strettamente economico, sostiene Tarantino, è necessario ritornare alla filiera corta, che riducendo i tempi di consegna dal produttore al consumatore, non perde la tracciabilità del prodotto direttamente immesso sul mercato.

Isabella Varraso sottolinea, invece, l’importanza della geografia etica degli spazi, per ricostruire l’evoluzione dal locale al globale, ripensando anche la possibilità, oggi altamente auspicabile, della reversibilità del processo, per riandare dal globale al locale.

Stefano Zamagni sostiene che occorre distinguere tra una crisi dialettica e una crisi entropica. La prima è determinata da uno scontro di vedute in reciproca opposizione, ed è tipica di quei grandi momenti di cambiamento nella storia, che hanno sottolineato l’epoca della Rivoluzione Americana, della Rivoluzione Francese, e della Rivoluzione Russa del 1917. La seconda è piuttosto una crisi di senso e di direzione, come l’attuale crisi economica, diversa, per questo, da quella del ’29, riassimilabile, per la sue caratteristiche precipue, alle crisi dialettiche, piuttosto che agli avvenimenti che si susseguono in Europa e nel mondo dal 2007 a tutt’oggi. Il primo equivoco dell’ultima crisi economica è, difatti, nella confusione tra economia e accumulazione capitalistica, che vede nel profitto il solo scopo della crescita, confinando nel sociale tutte le altre forme di impresa, come le cooperative, che non hanno questo stesso fine. Il secondo equivoco è l’aver scambiato per democrazia queste forme di sopraffazione economica, a danno di quelle produzioni che non si inseriscono perfettamente nel giogo del meccanismo infinito della macchina dell’eterno ritorno. L’unico sentimento cui si ispira una società fondata su questo modello reiterativo è l’avidità, nella falsa convinzione che possedere di più equivalga ad essere più felici, sebbene alcune ricerche abbiano finora provato esattamente il contrario. Nemmeno si deve credere che sostenere la crescita economica, intesa come implementazione dei profitti, voglia di conseguenza dire incrementare le condizioni sociali volte a favorire una maggiore giustizia economica. Perché, anzi, è stato dimostrato esattamente il contrario, dal momento che la ricchezza si concentra sempre nelle classi sociali più elevate, finendo così per alimentare il divario economico intercorrente tra dirigenti e lavoratori. Progetti filosofici come quello della decrescita felice di Latouche non risolvono la questione. “L’alternativa all’obesità non è la denutrizione, ma il discernimento”. Per questo bisogna piuttosto privilegiare il programma dell’economia civile di Antonio Genovesi, che aggiunge all’attuale economia politica i due valori del bene comune e della fratellanza,  che possono certamente riumanizzare l’economia.

(nel testo un mio contributo di ricerca dal titolo "Per Una Decrescita Felice")

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